VITE BARONALE, SECONDO NATURA

Di admin | 20 febbraio 2023 | TerritorioVitigni

Appena prima di lasciare la pianura, dopo qualche svolta sulle strade di Torano Nuovo, ecco gli appezzamenti di vigneti che sembrano sorreggere, come in un fascio di paesaggio coltivato, il poggio su cui spunta, fra gli alberi secolari, un borghetto antico che circonda l’antica residenza dei baroni Cornacchia. Famiglia e azienda convivono qui da secoli, in armonica continuità di generazioni, con il dottor Piero Cornacchia, uno dei protagonisti della storia enologica abruzzese, a curare questa storica realtà assieme ai figli Filippo e Caterina. Radici profonde in questa terra, concessa col titolo dal re di Napoli nel XVI secolo quando i Cornacchia, borbonici, erano legati alla mitica fortezza di Civitella del Tronto. Con l’unità d’Italia si ritirarono così in questo possedimento in località Torri, dedicandosi principalmente alla produzione di vino, anche grazie all’impulso dato, agli inizi del Novecento, dall’antenato Filippo Vizzarro Cornacchia che selezionò antichi cloni e reimpiantò i vigneti, anzitutto di Montepulciano – base di selezione, nel 1969, del clone R/7 Biotipo Teramano – e Trebbiano, della cui Doc, al cinquantesimo compleanno nel 2022, il barone Piero è una memoria storica. “Il Trebbiano aveva una sua identità già nei primi decenni del Novecento, mio padre Alessandro ci puntò molto, specialmente sulla messa a punto delle lavorazioni tradizionali”, ricorda Piero Cornacchia, “tecniche semplici, come la macerazione, poca tecnologia allora, eppure vini bianchi che, nelle giuste annate, avrebbero saputo testimoniare una invidiabile longevità e un acclarato miglioramento. Il Trebbiano teramano aveva poi una sua storicità. Nelle nostre etichette compariva, negli anni ’50, col nome di Trebbiano delle Torri, già negli anni ’60 lo si distingueva come Trebbiano d’Abruzzo, poi negli anni ’80, dopo l’istituzione della Doc, cominciò ad affermarsi anche nelle esportazioni, specialmente nei mercati esteri di America e Giappone. Oggi lo stiamo ripensando in chiave tradizionale, perché è un vino che merita di essere rilanciato, promosso”.

Cosa ricorda di quegli anni, quando come pionieri i primi produttori abruzzesi si presentavano al mercato nazionale e internazionale?

“Era tutto molto diverso, quasi una sfida affascinante, ci sentivamo sempre orgogliosi dell’impegno che dedicavamo alle nostre aziende e di poterlo presentare in occasioni di confronto con realtà allora già ben note e distribuite. Partivamo da campagne in cui, ancora, le donne con la conca in testa risalivano i vigneti per rifornire di acqua i contadini che davano il rame. Intanto l’Abruzzo cominciava a viaggiare per fiere, anche in paesi esteri, in aereo. Ricordo le prime edizioni di Vinitaly, quando l’Abruzzo si mostrava dimesso ma con tanta voglia di crescere, come abbiamo dimostrato negli anni e come, oggi, è evidente. D’altronde eravamo tutti ormai certi della qualità dei nostri vitigni autoctoni, specie per quanto riguardava il Montepulciano. Avevamo scoperto con la Doc del 1968 che era un vero e proprio tesoro, si vendeva una grande quantità di vino ai piemontesi, ai toscani, lo consideravano un vino moderno, di struttura e colore ma che “non marcava”, una ricchezza per i tagli. Da allora sempre più produttori ne intuirono il potenziale per destinarlo con successo al commercio delle proprie bottiglie”.

E il Trebbiano?

“Forse lo abbiamo tutti trascurato un po’ allora, forti dell’exploit del rosso regionale. La ristorazione voleva i bianchi friulani, le etichette conosciute del nord, non aveva una grande fama, ci ha messo un po’ per essere prodotto e considerato a dovere. La stampa di allora lo valutava come un vino semplice, beverino, da pesce, da proporre con umiltà. Questo aumentò la timidezza di tanti vignaioli abruzzesi che sterzarono su uvaggi e blend da varietà internazionali per le proprie etichette di bianco. Ci abbiamo messo del tempo a superare questa idea di un vino sì schietto, autentico, ma di livello tutto sommato contenuto. Il Trebbiano è rimasto per tanto tempo in ombra, prima per via dell’affermazione del Montepulciano, come dicevo, e poi per la grande diffusione più recente del Pecorino. I tempi sono maturi per una sua decisiva rinascita”.

Cosa è cambiato in particolare nella viticoltura in questi decenni, da quando ha ammodernato l’azienda di famiglia ai giorni nostri?

“È cambiato molto, ma non per tutti. Nel senso che è cambiato l’approccio alla terra. La consapevolezza, il rispetto per quello che definiamo territorio, qualcosa che dà ragione al vino, qualcosa da presidiare, tutelare, valorizzare. C’è stato un momento, parecchi anni fa, in cui a tutti sembrava che la modernità, fatta di un uso disinvolto di prodotti chimici, fosse la chiave della nuova agricoltura, produrre di più, con meno fatica, con meno rischi. Tecnici agronomi, legati alle aziende produttrici di concimi e trattamenti, visitavano quotidianamente le aziende agrarie con la soluzione immediata ad ogni problema. Non tutti hanno capito, allora, che la soluzione era sì rapida ma tutt’altro che indolore. Personalmente, la mia formazione mi ha sempre portato ad approfondire i temi di ricerca, le problematiche, così ho fatto da imprenditore agricolo. Ben presto mi sono reso conto che la soluzione, specialmente per la vigna, per il vino, era in realtà altrove. E così, in tempi non sospetti diremmo oggi, ho impostato la nostra attività di coltura e produzione in maniera differente, più responsabile, più sostenibile come si dice, e la conduzione biologica è solo una parte di questo approccio. Adesso, ma solo dopo tanti anni di viticoltura “diversamente produttiva”, si è fatta finalmente strada in tante realtà, specie in quelle guidate dalle nuove generazioni”.

Cosa ritiene prioritario, allora, per riflettere sul futuro dell’Abruzzo del vino, del vino abruzzese?

“Avere sempre in mente un concetto chiaro, di guida, prima di curare una vigna, prima di vinificare un’uva, prima di proporre un vino. Avere coscienza della propria storia, qualunque essa sia, tenendo in considerazione i migliori insegnamenti del passato e pensando con affetto alla propria terra”.

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